Non intendiamo “sociale”, ma “comunità”. Non è un “Sindacato” ma una “Unione”!
Mi lamento davanti alla televisione quando sento i politici o i giornalisti parlare in romanesco. [dialecte de la région de Rome] Oppure in qualche altro dialetto – che hanno tutti la dignità di lingue regionali – ma qualcos’altro. Una specie di italiano stanco, parlato dai romani, che non vogliono più pronunciarlo.
Se pensiamo noi italiani abbiamo due lingue a nostra disposizione, il dialetto e l’italiano. Una lingua locale e un’altra nazionale. Molto diversi tra loro e complementari. Per generazioni, il dialetto è stato per molti la lingua materna, la piccola musica che ha cullato l’infanzia, il parco giochi, la voce dolce che ci ha accolto tutti o quasi nel mondo. L’italiano, invece, è la lingua della scuola, del lavoro, dei libri, della Costituzione, insomma la lingua degli adulti. A differenza di un dialetto osmotico o quasi assimilato, l’italiano si impara fin da piccoli.
Fatta eccezione per coloro che hanno avuto la fortuna di ascoltare le prime parole in una famiglia colta una o due generazioni fa (che non è la maggioranza), siamo venuti al mondo con una prima lingua, il dialetto. Solo allora siamo arrivati alla seconda lingua nazionale. Quindi c’era un punto di partenza e una linea di fine. È stato soprattutto un percorso attraverso la scuola, il lavoro (tranne forse il lavoro in bottega o per strada) e le nuove relazioni sociali che presentava, e infine, grazie alla cultura, indicava quanto fosse modesto. La stessa lingua comune è l’italiano. Il dialetto è poi declinato soprattutto nelle aree urbane e tra le nuove generazioni, ma è ancora ampiamente parlato e conserva un forte potere di inquinare la lingua nazionale.
Una sonata per pianoforte suonata sulla cornamusa
Anche se non sono un linguista, ho passato gran parte della mia vita a scrivere, parlare e ascoltare le persone. La mia sensazione, che esprimo qui con (piccola) speranza contrastante, è che questo felice bilinguismo precoce rischi di essere sopraffatto da un linguaggio ibrido rozzo, più meticoloso, più analfabeta e molto meno promettente. Possiamo chiamarlo “Italisco”: non è più romanesco (o veneto, siciliano o ligure…) ma è tutt’altro che italiano. È come ascoltare una sonata per pianoforte suonata dalla cornamusa: nonostante la buona volontà del musicista, lo critichiamo o, peggio, lo prendiamo in giro con il suo pineo, se pretende di interpretarci Schubert.
A peggiorare la situazione è stato un pericolo recente, sfortunato e ancora significativo: l’accesso al potere di Georgia Meloni e delle sue amiche, il cui punto comune era un ostinato accento territoriale. Sarebbe bello se la retorica collettiva in questione non diventasse il linguaggio del potere. Perché “Italisco” è diventata la lingua del Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica. Questo è uno spunto di riflessione.
Così l’italisco parlato a Roma occupa tutta la sfera pubblica. Ma dovunque sentiamo dire che i veneziani, i piemontesi, i liguri e i longobardi, stanchi di conformarsi alla pronuncia italiana, sono latini per le tribù conquistate da Roma, per cui parlano “Ita”.
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